Tra gli argomenti caldi (ma che bollono in pentola da tanto tempo) c’è certamente quello su attuazione e consapevolezza di tutto ciò che attiene al mondo della sanità digitale. Il dato (cfr articolo Osservatorio Polimi nel numero di luglio di Tecnica Ospedaliera) è rassicurante da un punto di vista economico (più risorse significa più investimenti quindi, almeno in linea teorica, un effetto positivo) meno da un punto di vista dell’attuazione, per tutta una serie di motivi che hanno, ciascuno, una giustificazione ragionevole ma che non fanno vedere la conclusione di un processo.
E la telemedicina non è da meno, se consideriamo che – per di più dopo la pandemia, durante la quale era passato una sorta di messaggio che “senza telemedicina non potremo più stare” – il tasso di utilizzo è inferiore al 50% (sempre dati dell’Osservatorio).
Non mi soffermo sulle ragioni di questi dati (anche perché non è il mio lavoro…), ma mi limito a considerare che le barriere rilevate, principalmente di natura organizzativa, evidenziano che il successo di un progetto di questa natura, che più di altri investe il “sistema” salute e non la verticalità di una specialità o di una funzione, richiede un percorso culturale di accettazione dello strumento e del mutato modo di lavorare, ma anche una condivisione con tutte le figure professionali coinvolte perché si sentano parte attiva di un percorso. Ancora una volta, un ecosistema che va oltre le tecnologie, ma coinvolge anche i professionisti e, nel caso della telemedicina, i pazienti e i caregiver.
Mi preme invece considerare il fatto che in tutto questo percorso le tecnologie sono spesso viste come una “commodity”. Le tecnologie medicali necessarie al completamento della “catena clinica” (mi perdonerete questa espressione) sono considerate, se tutto va bene, come un terminale, quasi alla stregua di una stampante (con tutto il rispetto per le stampanti).
Manca, infatti, il coinvolgimento di chi si occupa storicamente di tecnologie che non vuole prendere il posto di chi si occupa di informatica (ha già il suo da fare), ma è necessario in una logica multidimensionale al pari del personale clinico nella valutazione della tecnologia utile a completare il processo disegnato dai sistemi informatici. Le apparecchiature (e gli Ingegneri Clinici) diventano elemento di attenzione quando assurgono a elemento di fastidio perché… “la connettività, la sicurezza informatica, segreghiamo la rete” come se fossero gli untori manzoniani. Invece, sappiamo che le tecnologie in sanità sono parte integrante e funzionale del processo, rappresentano spesso uno snodo significativo nella progettazione di un sistema per l’interazione che hanno con tutti gli attori (pazienti, caregiver, infermieri, medici) e per gli esiti sui pazienti (in HTA parliamo di outcome, efficacy, efficiency) e per l’impatto sulla sicurezza (umana in primi e poi anche informatica), concetti completamente diversi da quelli utilizzati per le commodities informatiche per le quali al massimo si parla di produttività.
In questo senso, siamo ancora lontani dall’ecosistema che certamente desideriamo e che abbiamo provato a portare come concetto nei più recenti eventi (il convegno nazionale AIIC in primis, ma anche negli eventi quali HIMSS Europe) nel tentativo di evidenziare che l’obiettivo può essere raggiunto solo se tutte le figure professionali lavorano insieme, portando ciascuna le proprie competenze, conoscenze e, in ultima analisi, la propria ricchezza.
Il progetto è ancora troppo il progetto di qualcuno che si muove da solo.., abbiamo perso di vista il fatto che lavoriamo per la salute di tutti?